Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri Giancarlo Giorgetti ha espresso con chiarezza le sue preoccupazioni per quanto riguarda il difficile momento che l’economia italiana sta attraversando. La crisi che il nostro Paese sta vivendo è di notevoli proporzioni. Essa interessa maggiormente i giovani. La disoccupazione italiana è circa il 10% e quella giovanile si attesta al 30%. La media europea è circa, il 7% e 15 %, rispettivamente. Inoltre, molti ragazzi italiani a causa della mancanza di lavoro stabile o di salari inadeguati sono costretti a vivere ancora con i genitori, che a loro volta mostrano apertamente le loro preoccupazioni riguardo al futuro dei propri figli.
Con l’avvento del nuovo Governo, insediatosi lo giugno scorso, gli italiani sperano di trarre notevoli vantaggi dalle numerose riforme promesse in sede di campagna elettorale (riforma Fornero, flat tax, reddito di cittadinanza). Esse, però, richiedono inevitabilmente coperture economiche che attualmente sono in fase di valutazione da parte dei Ministri e dei Parlamentari.
Il sottosegretario Giorgetti ha affermato recentemente, subito dopo il disastro del ponte Morandi di Genova, che l’Italia potrebbe aumentare la spesa per investimenti infrastrutturali. Tuttavia, ciò determinerebbe il rischio di sforamento del deficit/PIL del 3% con conseguente incremento del rapporto debito/Pil attualmente al 130%.
Tale dichiarazione si inserisce in un contesto che si caratterizza essenzialmente per tre fattori. Il primo è una revisione al ribasso delle previsioni di crescita del PIL italiano e mondiale con conseguente e naturale aumento del rapporto debito/PIL dei paesi che subiranno tale battuta d’arresto. Ad esempio, Moody’s stima che nell’anno in corso il PIL italiano crescerà dell’1,2%, contro una precedente stima del +1,5%, mentre per il 2019 la previsione è di un +1,1%, contro il precedente +1,2%. Il secondo fattore riguarda la Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (NaDef) che il 27 settembre dovrà essere presentato dalla coalizione di governo alle Camere per aggiornare le previsioni finanza pubblica del DEF in relazione alla maggiore affidabilità delle informazioni disponibili sull’andamento del contesto macroeconomico.
Le principali agenzie di rating, Standard & Poor’s (S&P), Moody’s e Fitch, sulla base di ciò che conterrà il NaDef decideranno sulla possibilità di un downgrade (modifica al ribasso del giudizio sul merito di credito) del rating sui titoli di debito italiano. Un’eventuale manovra di politica fiscale espansiva (riforma Fornero, flat tax, reddito di cittadinanza) contenuta nel NaDef e una revisione al ribasso della crescita economica italiana e globale -quest’ultima già avvenuta- determinerebbe un aumento del rapporto deficit/PIL finanziato tramite l’emissione di nuovi titoli di debito italiani. Poiché l’attuale rapporto debito/PIL italiano è del 130% anziché del 60%, come previsto dal Trattato di Maastricht, la solvibilità dello Stato italiano nel ripagare il proprio debito verrebbe percepito più fragile con conseguente downgrade del rating sui titoli di debito italiano. Ciò determinerebbe un aumento dello spread (differenziale di rendimento tra i nostri titoli di stato Btp e i Bund tedeschi) con conseguente aumento del tasso di interesse che gli investitori domanderebbero per acquistare titoli di Stato come remunerazione dell’aumento del rischio di insolvenza da parte dell’emittente e che lo Stato (noi italiani) dovremmo rimborsare.
Il terzo fattore è la probabile fine del Quantitative Easing attraverso cui la Banca Centrale Europea (BCE) ha cercato di ridurre il premio per il rischio dei titoli obbligazionari (lo spread, il tasso di interesse che gli Stati sono chiamati a pagare a fronte dell’emissione di nuovo debito). Se il premio per il rischio si riduce, chi emette titoli (gli Stati o le imprese) esborserà meno costi di finanziamento alla scadenza dell’obbligazione. Quindi, il loro finanziamento avverrà a un minor tasso di interesse. E poiché i rendimenti dei titoli pubblici sono di riferimento per la determinazione dei tassi di interesse di un’ampia gamma di strumenti finanziari (ad es.titoli bancari e aziendali), ciò comporta una riduzione dei tassi di interesse legati a tali strumenti oltre a ridurre altri tassi di interesse (ad es. l’Euribor a 3mesi con cui sono indicizzati i mutui ipotecari).
Quindi, il QE ha consentito di mantenere basso il tasso di interesse (e anche lo spread) che lo Stato deve sborsare a fronte di emissioni di nuovi titoli di debito. La fine del QE comporterebbe un aumento del rendimento dei titoli di Stato per gli investitori ma un aumento dei costi di finanziamento da parte di chi li emette (lo Stato). Perché? Supponiamo che la domanda da parte di investitori per un determinato titolo diminuisca. Se pochi investitori vogliono detenere un asset (una data attività finanziaria), la domanda per quell’attività diminuisce e, di conseguenza, il suo prezzo diminuisce mentre il suo rendimento aumenta (il premio per il rischio di detenere quel dato asset aumenta).
Il sottosegretario Giorgetti afferma che un’estensione della durata del QE proteggerebbe l’Italia da un attacco speculativo e ciò va interpretato alla luce dei tre fattori sopra considerati: un’ eventuale politica fiscale espansiva (riforma Fornero, flat tax, reddito di cittadinanza) prevista nel NaDef alla luce di un rallentamento della crescita economica italiana e globale porterebbe ad un aumento del rapporto debito/PIL e dello spread. Se la BCE decidesse di porre fine al QE, ciò si tradurrebbe in una minore domanda per i titoli di Stato e, di conseguenza, un aumento del tasso d’interesse sul debito.
Possibili benefici derivanti dal prolungamento del QE
Adottando questa strategia economica la BCE, governata da Mario Draghi, immetterà liquidità nelle banche europee che a loro volta saranno in grado di applicare ai propri clienti tassi d’interesse allettanti, rendendo meno gravosi i mutui soprattutto per le famiglie con figli. Un altro vantaggio riguarda la tua propensione alla spesa, che favorirà la ripresa economica generale. Potrai notare inoltre che un abbassamento dei tassi di interesse conferirà notevoli benefici al bilancio pubblico che eviterà un aumento del rapporto debito/ PIL. Un altro settore che beneficerà sensibilmente del prolungamento del “QE” é quello delle esportazioni. Considerando che in alcuni paesi (ad es., Stati Uniti) i tassi d’interesse sono già aumentati mentre nell’area euro non lo sono, ciò garantisce un deprezzamento dell’euro verso il dollaro che rende rendere il mercato delle esportazioni europee più competitivo con quello dei Paesi extra-area euro.
Criticità e possibili svantaggi del QE
Molti esponenti della BCE sostengono che questa strategia economica potrebbe creare scompiglio all’interno dei mercati italiani ed europei, perché lo considerano in disaccordo con la politica monetaria tradizionale che l’istituto ha sempre adottato in materia d’immissione di liquidità.
Un altro elemento da tenere in considerazione è dato dal fatto che è stata immessa un’enorme quantità di liquidità nel sistema e ciò potrebbe provocare un aumento sostanziale del tasso d’inflazione. Un’inflazione troppo alta potrebbe generare un innalzamento dei tassi d’interesse con conseguente impatto sui paesi periferici (ad es. l’Italia), dato i loro rapporti di debito/PIL.
Il Governo ha comunque ribadito più volte che il Governatore della BCE Mario Draghi dovrà adottare questa strategia finanziaria in maniera moderata, al fine di trarne sensibili benefici e riuscire nell’intento di finanziare le numerose riforme delle quali sono promotori.